Le montagne sono depositarie di storie e leggende che raccontano eventi di grande umanità. La storia prende spunto, per situazioni e personaggi, dalla conquista del Cervino compiuta, dopo molti tentativi, da Edward Whimper, scrittore e disegnatore inglese nel 1865. Il 13 luglio Whimper raggiunge la cima scalando la cresta nord-est dal versante svizzero.
Ma non era il solo a guardare al Cervino sognando di arrivare in vetta: Jean-Antoine Carrel, nato e cresciuto a Valtournenche, conquista la via italiana appena tre giorni dopo. Un’impresa che per tanti anni si credeva impossibile, ma nella quale due uomini hanno creduto fino a dedicarvi la propria vita.
Lo spettacolo de “La Conquista del Cervino” vuole raccontare la montagna, che richiama intorno a sé gente di paesi differenti e lontani, la fatica e il pericolo della salita, i rapporti - di alleanza e di sfida - che si vanno a creare tra i compagni di cordata.
L’icona del Cervino fa parte, da circa un secolo, dell’immaginario simbolico della montagna. Nessuna cima delle Alpi ha mai potuto contenderle il primato. Dalla letteratura alla critica d’arte, dalla tradizione orale delle vecchie guide valligiane ai récit d’ascention dei grandi alpinisti inglesi, la Gran Becca dei Valtournen ha dominato possente sulla dimensione onirica degli appassionati di montagna alimentando la loro libido ascensionale. Dal momento in cui il critico d’arte inglese John Ruskin coniò, per il Matterhorn dei touristes transalpini, la felice espressione de «Il più nobile scoglio d’Europa», il destino della nostra montagna è stato segnato in maniera incontrovertibile. Se ci si fosse fermati alla pura concezione ruskiniana delle Alpi, rappresentate alla stregua di eccelse «Cattedrali della Terra», probabilmente la corsa alla conquista materiale delCervino non vi sarebbe mai stata. Ruskin pensava, infatti, che la semplice osservazione a distanza delle grandi Alpi fosse sufficiente a garantirne il possesso estetico e mentale. Ma la febbre ascensionale degli alpinisti in un’epoca storica come quella della seconda metà dell’Ottocento, contrassegnata da desiderio di esplorazione, di possesso e di competizione fra le Nazioni, non poteva limitarsi alla sola dimensione contemplativa. La grande epopea dell’alpinismo, nato con la conquista del Monte Bianco nel 1786, stava celebrando i propri fasti grazie all’impulso ricevuto dalla nascita dell’Alpine Club di Londra nel 1857 e dall’effetto di trascinamento, prodotto negli anni sessanta del XIX° secolo, in Svizzera, in Austria, in Italia mediante la nascita dei rispettivi Clubs alpini. La questione della conquista alpinistica si intrecciava, infatti, con le nascenti aspirazioni ad un nuovo spirito di nazionalità in senso patriottico e tale da innescare accese competizioni per il raggiungimento della vetta. Dalle prime motivazioni scientifico-esplorative, l’alpinismo si stava spostando verso motivazioni nazional-popolari, anche se ancora declinate in senso elitario. Occorre precisare, in proposito, come gli Inglesi privilegiassero i versanti transalpini delle Alpi dall’Alta Savoia al Vallese, soprattutto per effetto di una notorietà da tempo propagandata. Azioni di vero e proprio marketing ante litteram, comprese rappresentazioni teatrali come quella di Albert Smith per il Monte Bianco, avevano come protagonisti i villaggi di Chamonix e di Zermatt. La crema dell’alpinismo britannico aveva eletto il villaggio di Zermatt base dell’attacco alla Gran Becca. Scuole di pensiero alpinistico contrapposte, come quella scientifica di Tyndall o quella sportiva di Stephen, perfezionavano le strategie per la salita al Cervino. La nostra montagna aveva stregato, con la sua potenza di fascinazione, l’élite alpinistica europea. Il versante valdostano rischiava però di restare escluso dalla corsa alla vetta. Solo la determinazione di Jean Antoine Carrel, di fronte alla provocazione di Edward Whimper, segnerà per la sua amata Vallée un imprevisto rilancio. La tragedia del 1865 aprirà un nuovo capitolo per la nostra montagna. Essa rappresenterà così, dopo il Monviso, un punto d’onore per la nuova Italia di cui il “bersagliere” Carrel è stato fedele servitore secondo le amate tradizioni francofone della sua pétite patrie. La fatica artistica di Livio Viano possiede allora il grande merito di riproporre per il Cervino, con il supporto trascinante delle musiche di Giorgio Negro, quel modulo teatrale già sperimentato un secolo fa per il Monte Bianco. Rivivere nella forma del teatro l’epopea del Cervino rende possibile quella struggente immedesimazione empatica dello spettatore che la semplice documentazione filmica non riesce sempre a trasmettere. (Annibale Salsa)